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giovedì 15 febbraio 2024

ARTE E GEOPOLITICA FRA GIAPPONE E ITALIA DAL XVI SECOLO ALL’ERA DEI MANGA

Estratti dai miei interventi al Festival #INtenso organizzato dalla Biblioteca Civica Varese negli incontri Il giorno in cui arrivarono Heidi e Goldrake, nell'ambito del Filmfestival Internazionale Cortisonici, e L'Onda lunga: dai Manga di Hokusai ai videogame agli strumenti della musica popolare giapponese, curato da Neoludica Game Art Gallery



Atlas Ufo Robot, alias Goldrake, alias rappresentazione iconica del boom dell’industria dell’acciaio nipponico, sbarca in Italia il 4 aprile 1978, quando il Giappone riesce ancora a mantenere ritmi di crescita economica sostenuta e il nostro Paese è in piena crisi con l’inflazione che balla intorno al 12% (mancano anche le monete, noi ragazzini facciamo incetta di miniassegni come di gettoni del telefono) e, soprattutto, in pieno incubo sequestro Aldo Moro. Per quelli come me, che erano alle porte dell’adolescenza e ancora risentivano dell’aspetto tetro degli anni precedenti (stragi fasciste e terrorismo di estrema sinistra), l’apparizione di un nuovo supereroe nel magico contenitore di rifugio della tv in bianco e nero, come i sogni, fu come un raggio di sole (sarà stata anche la bandiera del Sol Levante). Uno dei pochi ricordi belli che ho del mio primo anno al Nord, in quella periferia culturale che era Induno Olona, dove come tutti gli immigrati non mi trovavo affatto bene e sarei tornato più volte con piacere solo molti anni dopo, abitando a Varese.
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Il Giappone si presentava con prodotti all’apparenza immortali: era il mio registratore per cassette Hitachi, erano le radio a transistor, era per tutti nuove tecnologie ormai assolutamente affidabili (altro che la “robaccia giapponese da quattro soldi” di Woody Allen ne Il dormiglione). Era Giacomo Agostini passato dalla MV Agusta alla Yamaha nel ’74 (iniziava allora il dominio anche nelle grandi cilindrate). Erano i samurai (sandali compresi, incompreso invece il ruolo dei “ronin”, samurai senza padrone, nelle rivolte pro e contro la dinastia Meiji e la partecipazione ai primi movimenti socialisti nell’arcipelago) e le arti marziali di cui si aprivano scuole dappertutto: karate e, soprattutto, judo, di cui ero una giovane promessa (non mantenuta). È vero che il cinese Bruce Lee era stato più forte, però era morto. Il presidente Mao suscitava decisamente più simpatie dell’imperatore Hirohito, quello della Seconda Guerra Mondiale che poi sembrava una mummia, ma, politica a parte, di prodotti cinesi allora c’erano solo certi pentolini di metallo per il the o il latte a colazione e dei violini a basso costo - una delle poche cose occidentali permesse dalla Rivoluzione Culturale - tipo quello che torturai in quattro inutili anni al liceo musicale di Fermo. Quanto all’arte, giusto il cinema. Per i cinefili (ero ancora lontano dal diventarlo) i vari Kurosawa, Mizoguchi, Ozu e Ōshima erano già un mito. Per gli altri invece o i mostri (Godzilla e affini visti in tv già rovinatissimi). O il porno, almeno quello presunto tale, quei manifesti da brivido dei cinema a luci rosse con L’impero dei sensi  di Oshima (terzo elemento della triade proibitissima – paura e censura - insieme a Ultimo tango a Parigi di Bertolucci e a Salò di Pasolini). Che poi quanto presentato come porno fosse politico lo sapevano nelle grandi città o in cittadine “rosse”, come Porto Sant’Elpidio nelle Marche, da cui venivo e dove anche quell’altra parola, Zengakuren (il movimento studentesco protagonista del ’68 Giapponese) l’avevo sentita e ricordata perché era strana (e prima del liceo l’avrei confusa con Zenga portiere della mia Inter, di tutt’altra vena ideologica). In compenso iniziai a interessarmi all’arte di Utamaro – e quindi anche a quella degli altri grandi del “Mondo fluttuante” (Ukiyo-e), Hokusai chiaramente compreso con la Grande Onda e i primi Manga in assoluto (1814) – dopo aver visto nell’’82 l’accattivante locandina de Il mondo di Utamaro di Jissōji, buon remake softcore del capolavoro di Mizoguchi Utamaro e le sue cinque mogli (1946).
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In una lettera del 1585 di Filippo Sassetti - intellettuale a Firenze e, con meno fortuna, mercante nella colonia portoghese di Goa in India (ne parlerò in un prossimo post) – si dà quasi per scontato che il “Giapan” diventerà cattolico: “Là comandano i padri Gesuiti, fanno la guerra, e pongono i re in istato e altre cose”. Sappiamo che non sarà così e la reazione anti cristiana alla lunga, specie dopo la rabbia accumulata coi due falliti tentativi di invadere la Corea nel 1592 e 1596, avrà la meglio con la restaurazione dello shogunato da parte di Tokugawa Ieyasu, del figlio Hidetada e del nipote Iemitsu, che attueranno una spietata repressione della religione di Roma (grazie anche all’appoggio dei nuovi signori dei mari olandesi, vedi il bombardamento del castello di Hara nel 1637). Nel 1641 col decreto shogunale “sakoku” l’arcipelago viene chiuso agli stranieri con le parziali eccezioni dei porti di Nagasaki (per il commercio con olandesi e cinesi) e di Tsushima (riservato ai mercanti coreani).
ermina così anche quella prima influenza diretta dell’arte europea che aveva dato vita all’Arte Nanban. Non parliamo di capolavori, ma di opere di raffinata fattura, soprattutto paraventi che avevano per soggetto personaggi occidentali, sospesi fra l’estetica della Scuola Tosa (di più marcata impronta nazionale) e la Scuola Kanō (di rinnovata influenza cinese), che entrambe le sopravvivranno. Una pittura che mi ha sempre appassionato e commosso proprio perché tentativo di simbiosi, anche se irrealizzata, fra due mondi. Narrazioni sognanti capaci di far dimenticare per attimi preziosi i reciproci orrori del primo incontro.
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Cercando di svecchiare l’estetica tradizionale vengono invitati maestri d’arte dall’estero e, cosa fondamentale per noi, soprattutto dall’Italia. È infatti dall’incontro di uno degli esponenti della Missione Iwakura, Itō Irobumi (fra i primi a studiare in un’università inglese nel 1863, più volte ministro e primo ministro) con Alessandro Fè d'Ostiani, ambasciatore italiano in Giappone dal 1870 al 1877, che vengono poste le basi della Scuola Tecnica di Belle Arti di Tokyo. La fondazione è del 1876, come parte del Collegio Imperiale di Ingegneria, il che ne qualifica subito l’aspetto strumentale finalizzato più alle arti applicate da commercializzare che alle belle arti in senso stretto. D’altro canto l’Arte Nanban di tre secoli prima non era stata un’estetica da paraventi? Fatto sta che la Scuola diventa un crogiolo di nuove forme dove a guidare l’altoforno sono quasi sempre artisti italiani, certo non geniali ma di grande professionalità.
Il genio era arrivato prima, nel 1863, in campo fotografico, con i bellissimi scatti di quel personaggio particolarissimo a metà strada fra l’artista, l’avventuriero e l’affarista che risponde al nome (altrettanto particolare) di Felice Beato, formidabile reporter fra Crimea, India, Cina, Giappone (fino al 1884), Sudan e Birmania. Ora invece l’istituzione prevedeva insegnanti  regolari e senza troppi grilli per la testa. I nomi dei direttori scolastici sono noti a chi conosce i flussi più tranquilli della nostra arte del XIX secolo sia che si parli di Antonio Fontanesi (esperto paesaggista) o di Prospero Ferretti (emiliano come il primo e interessato anche all’astronomia).
Lo stesso dicasi per i docenti del Bel Paese: dai corsi preparatori dell’architetto milanese Giovanni Vincenzo Cappelletti (proposto nientedimeno che dal ministro dell’istruzione Bonghi) a quelli di disegno e pittura di Achille Sangiovanni (che introduce lo studio del nudo). C’è poi l’interessante esperienza dello sculture Vincenzo Ragusa, che oltre alla docenza ha lasciato un’affascinante eredità di ritratti di giapponesi dell’epoca, spesso gente comune (un'altra piccola rivoluzione). Così come la sua storia d’amore con la modella, l’artista Kiyohara O' Tama, che si traferisce con lui a Palermo e lo sposa diventando un’interessante pittrice di realtà siciliane.
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La Scuola Tecnica di Belle Arti di Tokio chiude i battenti nel 1883, sempre più contestata da un movimento di rinascita dell’arte “tradizionale” nipponica. Anche qui uso le virgolette perché questa reazione avviene soprattutto sulla base di una sollecitazione esterna (gli studi dell’orientalista americano Ernest Francisco Fenollosa). Quando si parla di “ritorno alla tradizione” bisognerebbe sempre avere presente l’opera fondamentale curata dal grande Eric Hobsbawm e da Terence Ranger L’invenzione della tradizione (1983), perché quanto pretende di presentarsi come “tradizionale” è sempre frutto di rielaborazioni – se non di vere e proprie falsificazioni – che si attuano alla luce dei cambiamenti intervenuti, assolutamente presenti anche se tenuti sotto silenzio.
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Il testo integrale in

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