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lunedì 20 settembre 2021

IL POTERE DELLA CERAMICA L’Arte non è mai “minore”

Questo vaso di terra, come me

Omar Khayyâm


Stringere fra le mani La terraglia italiana (1956) e non scottarsi, perché la “terraglia forte” deve cuocere a oltre 1200°. Il quotidiano tende al calor bianco prima di diventare oggetto d’uso. Una luce incandescente nella zona d’ombra di ogni giorno: dal quartiere Ceramico di Atene alle sponde del Lago Maggiore dove sorge Laveno-Mombello e sorse la Società Ceramica Italiana, che produsse questo libro per il suo centenario.

Oggi le pagine in bianco e nero non  rimandano più alla realtà ma al sogno. Eppure tutto fu così concreto!

Ricordare che ogni colore prima della cottura rimanda a un altro che plasmerà il fuoco.

Tenere presente che solo l’eccezionalità rende duratura un’abitudine. Quando cessa, resta l’arte.


I bagliori di una nuova arte

Commento musicale: Luigi Russolo (lavenese d’adozione), Risveglio di una città

Il fuoco di fila ha inizio in alto a sinistra della mia fotocomposizione con i vasi di Giorgio Spertini, morto giovane come piace agli dei (e a loro soltanto), apostolo del Liberty in terra lombarda a inizio Novecento: le prime lampanti novità dopo i confusi strati geologici dell’Italietta umbertina. Poi è la volta di due opere in piccolo dell’architetto Piero Portaluppi, prese in prestito dalle Maddalene del Crivelli, dotate di peso e rese quotidiane con un tocco di pulitura futurista. Se a Liberty e Futurismo aggiungiamo il fondamentale apporto della Bauhaus, con un nuovo linguaggio formale diffuso a livello europeo, è chiaro che la stantia definizione di “arte minore” era andata ormai a farsi benedire.

Superati i vecchi limiti di velocità – e di fruizione – atterriamo alla metà degli anni ’20, quando è lo stesso Portaluppi a realizzare diversi edifici di classe per lo Stabilimento Ponte: un occhio alla direzione, uno alla produzione e un rimando alla lanterna di Sant'Ivo alla Sapienza del Borromini (come nella centrale elettrica di Crevoladossola di qualche anno prima). Ci pensano le rotaie di un trenino Decauville a collegare il gioco di rimandi fra passati e presenti di ogni cottura della Società Ceramica con le Ferrovie nazionalizzate da Giolitti.

 

L’innovazione scotta

Commento musicale: Pietro Gori, Inno del Primo Maggio sull’aria del “Nabucco” di Verdi

Un operaio alla guida della locomotiva. Prima di quella della Storia, della conquista del potere da parte del proletariato come da programma di massima del Partito Socialista prima e poi di quello Comunista. Tuttavia, per quanto le vecchie arti minori fossero diventate maggiori già grazie all’intervento degli artisti di cui sopra, sotto, a plasmare concretamente sempre nuovi prodotti, a sostenere il peso di aumenti esponenziali di  produzione a costi irrisori e orari massacranti, ad ammalarsi di silicosi (numero incalcolabile ancora oggi), restavano gli operai. Che non si arresero certo alla condizione di semplice “manifattura”, ma coscienti dei propri diritti furono protagonisti di due grandi scioperi: nel 1907 e nel famigerato 1922. Al primo fu risposto con la serrata, al secondo con una pazienza della direzione calcolata sull’ascesa delle azioni del fascismo.

Nel centenario del grande sciopero dei lavoratori della Società Ceramica Italiana è bene anche ricordare che le masse artefici di tanta bellezza incrociarono le mani con singolare coraggio - il Biennio Rosso era finito da un pezzo, fuori dalle fabbriche spadroneggiavano le squadracce fasciste - e furono sconfitte, dopo sei lunghissimi mesi, solo per fame. Il contenuto dei meravigliosi piatti, che non ho voluto mettere in mostra, restava un affare per pochi. Non a caso il potere d’acquisto dei salari del 1919 sarà riconquistato solo anni dopo la caduta del regime, nel 1949. Lettura fondamentale per una storia della S.C.I. anche dalla prospettiva operaia il libro di Giuseppe Musumeci e Luciano Paoli, Laveno e le sue ceramiche: oltre un secolo di storia, Tipografia Marwan, 1994.

 

Il potere della ceramica

Commento musicale: Pietro Mascagni, Canto del lavoro

Luci e ombre di un’impresa di grande successo. La ceramica è solida, la ceramica è fragile. All’inizio delle candide pagine del libro spicca la foto da santino del direttore generale Luciano Scotti, posa da pensatore e sguardo penetrante, preceduta dall’epica qualifica di “condottiero” e sottoscritta da altre che, dopo Fantozzi, facciamo un po’ di fatica a prendere seriamente (e mancano quelle di marca fascista che vedremo poi, delicatamente epurate). Dopotutto la pubblicazione era dedicata a lui, che l’aveva certamente supervisionata con amore ma era venuto a mancare proprio l’anno del centenario della Società. Alla luce di un lumino o delle fiamme di un forno l’icona è quella dell’artefice del definitivo decollo e del grande successo della ceramica lavenese.

Quarant’anni esatti di potere: dal 1916 al ‘56. Potere familiare: aveva sposato Giulia Casanova, figlia dell’avvocato Antonio, uno dei principali azionisti della S.C.I. ma soprattutto cognato di Tommaso Bossi, direttore dell’azienda dal 1895 al… 1916. Nel ’56 la successione sarebbe stata più diretta: il figlio di Luciano, Annibale (condottiero anche nel nome, però più sfortunato). E come il padre di Luciano era stato sindaco della nativa Vittuone e Tommaso Bossi aveva unito la carica aziendale a quella di primo cittadino di Laveno dal 1898 al 1906, così lo Scotti sarebbe diventato sindaco (eletto) anche lui nel 1924 e quindi di podestà (nominato) dal 1927 al 1934 del nuovo comune di Laveno-Mombello (con tanto di tessera fascista premio ad honorem assegnata dal fascistissimo Farinacci). E, dulce – o amaro – in fundo sarebbe stato nominato deputato del Regno d’Italia dal 1929 al 1943, ricoprendo al contempo la carica di presidente della Federazione Nazionale Fascista degli Industriali della Ceramica e dei Laterizi. L’uomo aveva plasmato come voleva la sua terra.

E c’è da riconoscere che i frutti non avevano tardato a venire. Nei primi sette anni di dirigenza, grazie a un’efficace opera di ristrutturazione postbellica, era già riuscito a decuplicare il capitale della Società portandolo alla notevole cifra di 9.000.000 di lire dell’epoca. Poi fu la volta di tutta una serie di saggi investimenti in nuove tecnologie e nella diversificazione dei prodotti, così come in un rapporto consolidato - verrebbe voglia di dire “preveggente” - con l’industria tedesca (in particolare la bavarese Rosenthal per la fabbricazione di isolatori in porcellana). Prese a svilupparsi inoltre tutta una ramificazione di partecipazioni societarie che alla fine avrebbe partorito un elenco degno di Don Giovanni (Società Nazionale del Caolino, Immobiliare Cerab S.p.a., AILAI, Mega Costruzioni, Società Esercizi Aeroportuali S.p.a., SACELT, Società Cave Feldspato, SISBA).

Grandi risultati, certo, che però sottintendevano sempre il fondamentale basso costo dei salari, che per due volte volle addirittura diminuire perché considerati troppo alti (unica consolazione: in molti altri settori industriali - non parliamo poi dell’agricoltura - era peggio). Eppure “Papà Scotti” (così amava essere chiamato) riuscì a superare indenne caduta del fascismo e fine guerra, breve arresto a parte: per l’ennesima volta era riuscito a tenere il piede in due staffe coprendo l’attività di diversi partigiani.

La sua grande professionalità ebbe quindi modo di esprimersi anche nel secondo dopoguerra, dove ebbe modo di sperimentare meglio la sua attività di padre oltre che di padrone: case per gli operai, lavori agricoli per i reduci, un fondo per gli ammalati di silicosi, una colonia marina per i figli dei dipendenti (la Casa al Mare a Marina di Pietrasanta, oggi purtroppo in abbandono) e, soprattutto una Scuola Professionale per Ceramisti diretta da un esperto di grande umanità come l’orafo milanese Ambrogio Nicolini.

Nel 1953 la Società Ceramica Italiana è ormai una città in un paese e raggiunge la massima occupazione: nei suoi stabilimenti lavorano 2300 persone a fronte di 6750 residenti nel comune. La Società è Laveno.

 

Il potere dell’arte

Commento musicale: Goffredo Petrassi: Dialogo angelico, per due flauti

In fatto di padri-padroni lo Scotti fu in buona compagnia - o cattiva, a seconda dei punti di vista - ma, come abbiamo potuto notare, fu in ogni caso un formidabile dirigente d’impresa, capace anche di circondarsi di ottimi collaboratori (per esempio gli ingegneri Meregalli e Chiodi e l'avvocato Tinelli, che lasciò in eredità al figlio). Ma fu grande – bisogna riconoscerlo - soprattutto nell’alto profilo artistico che seppe imprimere all’azienda (dopotutto era un valore aggiuntivo alla qualità della produzione di massa). Se il marchio della Richard-Ginori era garantito dalla genialità di Gio Ponti, la Società Ceramica Italiana seppe schierare a guida dell’apparato estetico personaggi del calibro di Angelo Biancini e Guido Andlovitz. Lo scultore, che rielaborava il passato (godetevi al MIDeC di Laveno gessi e ceramica del suo grande Orfeo incantatore: nella fotocomposizione è l’ultimo in basso a sinistra), e il designer, occhio e mano di sensibilità estrema nel riplasmare in ceramica le metamorfosi della migliore arte contemporanea (scelta difficile fra tanti gioielli: io prediligo soprattutto i suoi vasi globulari di estrema purezza). La continua presenza a Biennali di Venezia e Triennali di Milano testimoniarono l’eccellenza del lavoro e il definitivo approdo nelle alte sfere di questa “arte minore”.

Conquista consolidata dal genio di Antonia Campi, che successe a Guido Andlovitz alla direzione artistica nel 1962, ma che già da tre lustri aveva imposto il suo disegno in centinaia di articoli degni delle migliori avanguardie del suo presente (e del nostro futuro): dai servizi da tè e caffè, a vasi, piatti e soprammobili, ai sanitari e alla rubinetteria (e il bagno si rivestì di luce ribaltando la vetusta immagine di luogo sconveniente). Precedente di un decennio anche la sua consacrazione, alla IX Triennale di Milano del ’51, quando lo splendido fregio ceramico Landscape aveva trovato posto in cima allo scalone d’onore accanto alla Struttura al Neon di Lucio Fontana. La ragazza scelta nel ‘38 come modella per la testa della Minerva Armata del suo maestro a Brera, lo scultore Francesco Messina, avrebbe ricevuto il Compasso d’Oro alla carriera soltanto a 90 anni, nel 2011. Forse perché donna e non in linea con i dettami tradizionali della femminilità? Domanda retorica. E forse lei già ci scherzava sopra da quando, a inizio carriera nella S.C.I., aveva disegnato (lei che detestava il tè)  il meraviglioso Servizio C. 73, dove le teiere evocano altissime galline. La donna ci ha lasciato tre anni fa. L’artista è nelle migliori collezioni museali di design su scala planetaria (MoMA di New York in primis).

 

I grandi poteri

Commento musicale: Luigi Nono, La fabbrica illuminata, per soprano e nastro magnetico a 4 piste

Il costo di tutto questo smalto, in termini di salute e sfruttamento, lo abbiamo già sottolineato, fu alto - e un simile prezzo, troppo caro in tutta la storia dell’arte per i senza nome, non dovrebbe essere mai più pagato – ma se non altro non fu per invadere il mercato di paccottiglia. Tuttavia l’epoca d’oro della Società Ceramica Italiana - ironia della storia, proprio all’inizio del Boom Economico - stava per volgere al termine. Il grande sciopero del 1956 - l’impresa aveva superato indenne la caduta del regime, ma gli operai non erano certo più così malleabili in fatto di cottimi e licenziamenti nella nuova democrazia - e la morte, a fine dello stesso anno, di Luciano Scotti chiusero un’epoca. L’accurata diversificazione produttiva - strutturata in articoli domestici in terraglia forte e in porcellana fine, apparecchi igienico-sanitari in vitreous-china (adottati da alberghi e transatlantici di lusso), isolatori elettrici in porcellana (usati per grandi elettrodotti in tutto il mondo) e materiali refrattari – e il successo, garantito non solo dalle vendite e dai riconoscimenti artistici ma anche dalla costante presenza dei prodotti nelle maggiori esposizioni fieristiche a livello mondiale, permisero all’azienda di resistere un altro decennio. Sennonché, ai primi laici segni di crisi del Miracolo Economico Italiano, parliamo del ‘65, la nuova dirigenza scoprì di avere i piedi d’argilla e che non c’erano altri forni che quelli della perenne rivale, la Richard-Ginori, per ridare energia e sostenere il peso di quattro enormi stabilimenti: l’originaria Ceramica Lago, i Mulini-Boesio, il Ponte e la Verbano. La famiglia Scotti uscì definitivamente di scena, ma i libri contabili della riformata Società Ceramica Italiana Richard-Ginori S.p.A. restavano in attivo (le sterminate schiere dei suoi candidi piatti avevano ancora la meglio sulle stoviglie in plastica moplen).

Poi giunsero i fatidici anni ’70, dove tumultuosi cambiamenti sociali e politici e grandi lotte operaie di un sindacato finalmente unito dovettero confrontarsi con crisi economiche ed energetiche a livello nazionale e internazionale, terrorismi concreti neri e rossi e probabili strategie della tensione, duri scontri a difesa dell’occupazione a fronte di ristrutturazioni e graduali, poi sempre più incalzanti ridimensionamenti delle attività.

Fu un decennio cruciale per l’industria ceramica italiana, che finì per ritrovarsi in un vortice incandescente di metamorfosi contro natura a livello azionario e societario. Dall’epoca d’oro degli imprenditori a quella dei finanzieri, in primis nella veste di faccendieri. Perché c’è da chiedersi se personaggi come Michele Sindona avessero così a cuore invitare amici e pregiudicati all’ora del tè col servizio della Campi visto che la Richard-Ginori finiva per far parte della sua famigerata Finanziaria Sviluppo. Ma qui le domande retoriche si sprecano e l’unica risposta è che nel 1973 il banchiere di Patti, con tanto di laurea con tesi su Il principe di Machiavelli, vendeva il suo portafoglio ceramico a un altro bel soggetto, il ragionier Raffaele Ursini - cresciuto alla scuola del primo “banchiere di Dio” della repubblica: Michelangelo Virgilito – amministratore delegato della Liquigas. E non era una questione di combustibile per i forni, ma l’ennesimo gioco societario di uno dei tanti, troppi biscazzieri della politica economica di quegli anni - e sottolineo “politica” - estraneo a quanto stava manovrando e interessato solo al proprio tornaconto finanziario (fu il preludio oscuro alla successiva e attuale egemonia en plein air di Borsa e finanza sugli aspetti strettamente produttivi). Parliamo anche di miliardi di vecchie lire buttate al vento (c’è da rimpiangere la versione santino di Luciano Scotti). Il ragioniere non avrebbe sorseggiato il caffè al cianuro del banchiere - qual era il brand della tazzina? – ma, arrestato, provvisoriamente liberato e definitivamente fuggito in Brasile, sarebbe morto nel proprio letto a Losanna. Richard-Ginori e relativa Società Ceramica erano intanto finite - nel grande caos del ’77, ma in silenzio e nell’ombra - nell’orbita della SAI (le Assicurazioni ex Fiat e poi ex Liquigas) e soprattutto nelle grandi mani di Salvatore Ligresti, altro ex scolaretto, ma decisamente più discreto, di Virgilito

 

Il segno dopo il comando

Commento musicale: Charles Ives, The Unanswered Question

Poi i cambi di proprietà diventano troppi per elencarli, ma la Richard-Ginori (senza Richard) esiste ancora. La Società Ceramica Italiana no. L’incantevole bellezza di Laveno forse non vale quella classica della Toscana. Come al solito, almeno in Italia, l’arte deve restare dove ha avuto la sua cuccia riscaldata (d’altro canto è vero che c’è chi ha cura di riscaldarla e chi no). Io non sono d’accordo con questa specie di classicismo ruminato che ossessiona la nostra cultura, ma devo prendere atto che “Sic transit”. La gloria della Società Ceramica Italiana, una delle più importanti aziende del settore a livello europeo - se non a livello mondiale: c’era (e c’è ancora, salvata dallo Stato) la consorella Porcelanas Verbano a Rosario, in Argentina, inserita nel gruppo dal 1952 -  tramontò perdendo un pezzo dietro l’altro. È vero che già nel ‘79 il ministero dell’industria aveva nominato un commissario governativo per mettere ordine nell’intrico delle controllate dalla Liquigas, ma, anche prendendo per buona l’intenzione di salvare il salvabile, non fece o poté far nulla di fronte alla decisione della SAI di non rilanciare il comparto ceramico. Ormai, dopo la sconfitta dei sindacati nella vertenza FIAT del 1980, la parola d’ordine era “ristrutturare”, spesso eufemismo per “licenziare” o, in breve, “chiudere” .

La ristrutturazione ovvero lo stillicidio della S.C.I. ha inizio nel 1981, quando viene messo in liquidazione lo stabilimento Mulini-Boesio. Gli occupati in quello che resta sono ormai solo 730 (si torna ai numeri di fine XIX secolo, ma con progressivo aumento dei cassintegrati).

Nel 1982 l’Italia vince i  mondiali di calcio, si torna a cantare l’inno di Mameli, però i dipendenti della storica Ceramica Lago, ridotti a sole 130 unità, vengono messi in cassa integrazione a zero ore. Cercano di reagire organizzandosi in assemblea permanente, ma è il decennio sbagliato. L’anno dopo, quello del primo presidente del consiglio socialista, viene firmato anche un accordo. Tuttavia la carta non canta più l’Internazionale, quindi solo una minoranza viene trasferita ad altri stabilimenti del gruppo (Gattinara, Milano San Cristoforo, Laveno Ponte). Nel caso dello stabilimento Verbano è bene sottolineare il coraggioso tentativo di salvataggio dal basso contro la messa in liquidazione operato dalla "Società Ceramica Industriale Cooperativa Verbano", costituita sempre nel 1982, alla quale partecipano 92 dipendenti, il comune di Laveno Mombello e le comunità montane della Valcuvia e del medio Verbano. L’esperimento raggiunge il suo massimo successo nel biennio ’86-’87, quando viene raggiunto un picco di 160 occupati. Segue una lenta discesa, favorita dalla progressiva perdita di fiducia del sistema bancario, finché, nel 1997, la cooperativa è costretta alla chiusura. L’ultimo stabilimento a chiudere i battenti è quello Ponte, sopravvissuto anche alla temperie degli anni ’80 (i suoi articoli domestici impegnavano ancora 200 lavoratori) e perfino agli alti e bassi del decennio successivo. La fine arriva col nuovo secolo o millennio, quando della Storia della grande industria della provincia di Varese è ormai mitologia: Anno Domini 2003.

Restano le vecchie collezioni di casa, dove non si mangia. Le foto su internet, impalpabili ma in vendita. I pezzi nei musei: guardare e non toccare. Fare attenzione al resto, sennò si rompe. E quel giusto silenzio dedicato ai morti, che però stona con le macchine in produzione, i commenti degli operai, degli impiegati, dei venditori, del pubblico alle fiere. Tutta la vita che sta dietro l’arte, prima che sia arte o arte minore o anche artigianato o solo articolo prima e poi sul mercato, ma che pulsa ancora lavoro.

Resta il museo, il MIDeC a Cerro, frazione di Laveno-Mombello, cresciuto dal 1971 come i suoi platani che si affacciano sul lago. Stupore dentro, incanto fuori. Meno inquinate le acque da quando è cessata l’attività industriale, ben restaurata la sede aristocratica di tardo XVI secolo, Palazzo Perabò. E una nuova attenzione al passato da parte di autorità e cittadini.

Tutto sommato un lieto fine - in altri posti è andata decisamente peggio – per dare e ridare vita a un inizio diverso. Porterò anch’io il mio contributo a questa rinascita partecipando a una nuova versione virtuale interattiva del museo, di cui vi parlerò.

Ogni granello di terra nascosto in seno alla terra

Prima di me, prima di te, fu forse Corona e Gioiello.

Da volto gentile dunque la polvere tergi più dolce,

Ché quella polvere, un tempo, fu forse volto gentile.

 Omar Khayyâm

 

Luca Traini

sabato 11 settembre 2021

JOSQUIN DESPREZ, RAFFAELLO SANZIO: ARMONIA E DISSONANZE

Raffaello, Josquin: arte due volte orfana a distanza di un anno. 1520, 1521 e altri 5 secoli di superiore lontananza.

Amore a distanza anche il mio, perché fin da giovane la passione fu prima per Michelangelo e poi per Johannes Ockeghem: Cappella Sistina per l’italiano, Requiem del fiammingo. Negli altri tutto sembrava troppo facile, senza tormento.


Leonardo da Vinci, Ritratto di musico, 1485 circa
Ma è lui Josquin? O è Franchino Gaffurio, come ancora propendo
(anche se mi piacerebbe fosse il fiammingo, giovane, invece dell’attempato uomo inciso col turbante),
che ho inserito nel mio post su un evento che ho curato ad Abbiategrasso?
Cosa passava in quel momento per le orecchie, gli occhi di Leonardo?

Fu poi quel canto gentile e struggente di Josquin per il maestro Johannes, la Deploration, ad aprirmi le orecchie, gli occhi anche sulle sfumature sofferte dell’ultimo Raffaello. Le ninfe dei boschi invocate dalla canzone piangevano anche la bellezza del pittore, dell’uomo scomparso a 37 anni.

E come avevo intessuto la trama di un dialogo fra i personaggi delle opere di un altro artista, spento alla stessa giovane età – Resurrezione e morte di Jean-Antoine Watteau – così ho iniziato a comporre emozioni e pensieri dai ritratti dell’artista di Urbino, marchigiano, come me. Rimasti allo stato di frammento, come quelli per Lotto a Recanati (dove regna il silenzio, rotto solo dalle parole di Leopardi).

I musicisti sembrano avere la fortuna di vivere più a lungo. Le note di Couperin e Rameau come eco delle tele di Jean-Antoine. I quadri di Raffaello Sanzio in armonia, armonia comprensiva di dissonanze, con le quattro voci del pentagramma di Josquin Desprez.

 

SE OGNI COLORE È CANTO


Frammento Primo



Baldesar Castiglione

(come recitasse i suoi versi da quegli occhi così azzurri e tristi)

“Così, se ben un tempo al tempo guerra

fanno l’opre famose, a passo lento

e l’opre e i nomi il tempo invido atterra”.

 

L’uomo ritratto con Raffaello

Io credo parli d’amore anche questo silenzio.

 

Raffaello

Tu sei buono, amico mio. Ma io sento un destino che si accanisce, mordendo lento la mia fama da vivo, la mia fortuna di più di tre secoli. Prima di questa mostra altri duecento anni dove il rispetto ha spento la passione. Il cuore di questi nuovi sguardi batte per Leonardo, Michelangelo… Bellezza, gentilezza, generosità, la mia stessa dolcezza, “per non so quale astro avverso”, mi furono contro.

Lo stesso genio. Lo stesso destino del mio Petrarca.

Preferiscono Dante.

 

La Velata

Quella poesia che tu amavi tanto. Come me, che ricambio i tuoi, i suoi versi:

“Lassare il velo o per sole o per ombra”

… Ombra…

“Mentr’io portava i be’ pensier’ celati”.

 

E un’ombra sempre più grande scende fino a far svanire i volti al canto “Adieu, mes amours” di Josquin.


Frammento Secondo


 

Giulio II

Quello che resta, Leone, è un povero vecchio. Un vecchio leone dal volto emaciato, gli occhi dentro due caverne che fissano il vuoto. Leggi il teschio, io mi pulirò la bava col fazzoletto. Con discrezione. È Raffaello: fasto sobrio, preziosi dettagli. Oro, rosso, il verde che ho dietro le spalle. Potere, sangue, speranza io non li curo, non mi curano più. Davanti a me c’è solo quella cosa che non si vede. E non è come nelle tue preziose miniature.

 

Leone X

Io sono il figlio di Lorenzo de’ Medici e ogni libro è sacro. Posare mi rilassa, specie dopo questo Concilio in Laterano che hai voluto tu. Dovevamo riformare la Chiesa, lavoro colossale: un affresco di Michelangelo, di Raffaello. E invece… miniaturisti di bottega. C’era da ricostruire una Chiesa sulla roccia e non riusciamo neppure a procedere con San Pietro. La Germania si è ribellata contro le indulgenze e io devo capire se processare questo agostiniano, questo Martin Lutero. Raffaello mi ha fornito una lente preziosa. Temo preziosa solo per le miniature.

 

Appare l’”Estasi di Santa Cecilia” sulle note dell’Agnus Dei dalla “Missa L'homme armé super voces musicales” di Josquin Desprez.


Luca Traini

mercoledì 1 settembre 2021

LA DIFFERENZA DI ERASMO "Il Ciceroniano"

Commento musicale Orlando di Lasso, Justorum animae 


Ho ritrovato il Ciceroniano qualche anno fa sopra un cassonetto della differenziata per la carta.
Due differenti reazioni. Da un lato la gioia di farlo finalmente mio (all’università l’adozione in prestito era durata solo un mese). Dall’altro il dispiacere di vederlo abbandonato così, dentro una cassetta di cartone della frutta. Mica tanto per il packaging – cultura deriva da coltura e frutta con frutto dell’ingegno stanno bene – quanto perché in triste compagnia di vecchi bestseller buoni sì e no per un’indagine di costume. Certo, meglio così che nell’indifferenziata, ma guarda te che fine per uno dei testi cardine del libero pensiero che aveva scosso l’Europa del 1528 e ancora ha tanto da dire!


Facile scordare quanto il nostro continente sia sempre stato una polveriera e le parole sensate le prime a essere prese di mira. Gli anni del crepuscolo dell’Umanesimo sono una tragedia senza deus ex machina. La stessa Roma è appena sopravvissuta a stento a un saccheggio che ha fatto impallidire Visigoti e Vandali. E opera di quello che doveva essere il suo “defensor fidei”: il sacro romano imperatore! Le speranze di riforma del cattolicesimo infrante dal nulla di fatto sostanziale del V Concilio in Laterano.


A fronte di tutto ciò la massa degli intellettuali, specie quelli della penisola italica, non trova più la forza di reagire, non scava alla ricerca delle cause del caos apparente, ma cerca la fuga nell’ordine irreale della sintassi, nel culto della forma fine a se stessa e del suo idolo, Cicerone: “Costringono all’imitazione idolatrica del solo Marco Tullio.”. Un piccolo esempio di assolutismo letterario parassita dei nuovi sterminati orizzonti di quello politico, chiacchiere fumose a fronte del fumo dei cannoni.


Il dialogo di Erasmo è l’estremo tentativo di aprire una breccia nel nuovo hortus conclusus degli studiosi, di riampliare gli orizzonti d’azione facendo appello a un più vasto e approfondito panorama di studi o, quanto meno, di riallacciare il discorso della forma ai contenuti morali della migliore tradizione ciceroniana.
Certo, oggi siamo a conoscenza dei numerosi chiaroscuri della figura storica di Cicerone, non ci turbiamo più, come Petrarca, se scopriamo dalle lettere private che l’uomo era ben diverso dal principe del foro, dal console e dal mito letterario: lo contestualizziamo avendo chiari i suoi limiti. Ma all’epoca il punto di riferimento era quello. Così come, per Erasmo, il rinnovamento del cattolicesimo all’insegna del ritorno alle sue origini per fronteggiare la riforma protestante (meglio, le riforme) con gli strumenti del dialogo invece di quelli bellici. E nei ciceroniani vedeva una carta in meno da giocare in questa sfida epocale, perché i loro gusti sapevano troppo di neopaganesiamo:


“Nei quadri lo sguardo è più attratto da Giove scivolato attraverso l’impluvio in grembo a Danae che da Gabriele annunziante alla Santa Vergine la concezione divina;


piace di più Ganimede rapito dall’aquila che Cristo ascendente in cielo;


trattiene più dolcemente gli occhi la rappresentazione delle feste Baccanali o delle feste Terminali che la rappresentazione della resurrezione di Lazzaro o del battesimo di Cristo per opera di Giovanni.”. Quanti capolavori della nostra arte rinascimentale in queste parole, tanto sublime nella rielaborazione di temi classici quanto perdente da un punto di vista politico. Arte di potere, di un potere dinastico che tendeva a diventare assoluto anche se dal mecenatismo geniale. Non più arte in grado di guidarlo, se mai ne fosse stata capace, verso una nuova, condivisa “res publica christiana”.
Infatti era troppo tardi. L’operazione fallì. Si alzò un polverone di critiche, specie in Italia e, soprattutto a Roma, feroci. Il grande pensatore olandese finì per ritrovarsi inviso a entrambi gli schieramenti, irreggimentati, specie nelle seconde e terze linee più mediocri e omologate contro qualsiasi critica.


Addio a concetti come “libertas”, “dignitas” e “humanitas” che avevano forgiato il primo Umanesimo e il pensiero erasmiano, vittime sacrificali del “servo arbitrio” luterano e della chiusura a riccio del cattolicesimo. Alla vigilia del Concilio di Trento saranno messi al rogo tanto i libri di Lutero quanto quelli di Erasmo.
Resta la testimonianza, anche oggi quanto mai preziosa, di una mente libera capace di pensare in grande. Da attualizzare in forme nuove prima che il furgone dei rifiuti della storia ne ricicli i brandelli in manualetti da aforismi o, peggio, li abbandoni a marcire nella già enorme discarica indifferenziata della memoria.


“Facessant haec dissidiorum cognomina, ea potius inculcemus, quae et in studiis, et in religione, et in omni vita concilient alantque mutuam benevolentiam. Se ne vadano in fretta questi soprannomi di discordie, e inculchiamo piuttosto ciò che negli studi, nella religione e in ogni genere di vita concilia e alimenta la benevolenza reciproca.” (Trad. Angelo Gambaro, La Scuola Editrice, 1965).