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giovedì 20 ottobre 2016

TROUBETZKOY A VERBANIA: NOBILE CONCRETEZZA DELLA SCULTURA

Commento musicale:Sergej Rachmaninov, Concerto per piano e orchestra n.4, II

Non pensavo di trovare anche il conte di Montesquiou. La forza sottile delle pagine proustiane si innerva e si dilata in questo gesso patinato bronzo. La sprezzatura dell’uomo pare ingentilirsi in distrazione. Ma il distacco è sempre apparente: “Anche voi qui? Anch’io non vi aspettavo. Questa mostra è perfetta, ma, come tutto ciò che è perfetto, sarà solo un ricordo”.
Il fantasma della nobiltà diventa nobile concretezza (rammentando sempre che sotto il bronzo c’è il gesso).


Signora Troubetzkoy, il vostro sorriso vince il tempo.


Rappresentazione di George Bernard Show: il piglio di una vitalità che si rinnova nella lotta contro miserie materiali e morali. E arriva a compiere 94 anni. Contraltare: il busto di  Segantini, morto a 41, vittima di peritonite, albergatori e immagini turistiche. Lo scultore celebra due diverse luci, due sfide, due diversi titani.


Il terzo è Leone Tolstoj. La sfida dell’uomo vestito da contadino a fianco della trasfigurazione di quel volto nella profondità spirituale di un popolo. L’anima russa in perenne ricerca di riscatto, punto focale delle geografie interiori di Troubetzkoy, anche quando scolpirà quella specie di ippopotamo a cavallo (la definizione non è mia) che fu lo zar Alessandro III. Ed era, è, come Tolstoj, Russia. Anche quella.


Poi un altro padre della patria, uno vero: Garibaldi. Geometria essenziale di due grandi uomini: il condottiero, lo scultore. Eccezione di rilievo al gigantismo lillipuziano dell’Italia umbertina, che lo rifiutò. A monumentali sciocchezze risponde un grande monumento.


Lo stesso accadrà per il Monumento ai Caduti: una madre, un bambino, un fiore. Nel bozzetto come nella statua a fianco del lago, di fronte alla piccola città anch’essa ferma nel gesto, nel tempo. “Bella Pallanza” - e struggente. Grandezza della semplicità.


Ces nymphes, je les veux perpétuer.

                                               Si clair,

Leur incarnat léger


Stéphane Mallarmé, L’après-midi d’un faune

Le donne di Troubetzkoy non si possono dimenticare. Sorte da una specie di tempio maya, da un salotto o dall’intimità della camera


troneggiano fin dai bozzetti, danzano libere, sfidano con eleganza il perbenismo imperante.




Ottima l’idea della proiezione di rari e preziosi fotogrammi della rivoluzionaria danza di Lady Constance Stewart-Richardson – a piedi scalzi e con pochi veli (le costò l’ostracismo a corte) – accanto al bronzo in cui fu ritratta. Giusto all’incrocio fra muro e soffitto affrescato, per dare maggiore profondità, anche simbolica, in uno spazio espositivo già di per sé ricco di fascino.


Paolo Troubetzkoy, lo scultore vegetariano che amava gli animali e in particolare, come il sottoscritto, i cani, che in mostra accompagnano il visitatore dai giochi innocenti della prima giovinezza alla commemorazione del suo atelier. Avevo imparato a conoscerlo nella grande mostra “La scapigliatura milanese” che Debora Ferrari aveva curato nel Chiostro di Voltorre (2001): l’”impressionismo” della sua scultura è anche debitore di questa importante esperienza. 


La Scapigliatura milanese. Note, colori, versi, umori della Compagnia Brusca.

E’ l’immagine progressista dello scultore - dominante anche nella bellissima mostra al Museo del Paesaggio curata dal conservatore Federica Rabai - di un artista che aveva fatto buon uso del privilegio di essere nobile e ricco per scelte libere e controcorrente. Ma non dobbiamo dimenticare che fu anche il principe russo in là con gli anni, terrorizzato dalla rivoluzione sovietica, che, sulla scia del culto dei grandi uomini, s’infervorò per il fascismo e la figura di Mussolini, cui dedicò alcune opere (per un approfondimento rimando alle ottime pagine di Giuseppina Giuliano: I russi alla "corte" di Mussolini).


Il dolcissimo ritratto della moglie e del figlio all’ingresso, il cielo che si rasserena, fanno passare in secondo piano queste ombre. E, percorrendo Via Ruga, scopro una delle librerie più belle, complete e originali che abbia mai incontrato: la Libreria Spalavera.
Ci trovo l’edizione originale de “Le civiltà scomparse dell’Africa” del ghanese deGraft-Johnson, Feltrinelli 1960 (recentemente ripubblicato da Res Gestae), una vera rarità per la mia collezione di storia delle culture africane.


Un’altra storia da narrare.

Testo e foto di Luca Traini

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